Autodeterminazione e impegni internazionali

Domanda: firmereste un contratto con una società anonima, sapendo che essa potrà poi liberarsi dai suoi impegni nei vostri confronti con un semplice cambiamento del suo statuto? Ne dubito. Con un interlocutore così poco affidabile non si concludono accordi e non si fanno affari. Troppo rischioso. Eppure è proprio quanto succederebbe alla Svizzera, se l’iniziativa «per l’autodeterminazione» trovasse una maggioranza del popolo e dei cantoni il prossimo 25 novembre. Trovare ancora qualcuno disposto a sedersi ad un tavolo negoziale con noi diventerebbe impresa impervia. Se oggi il nostro Paese è rispettato nel mondo, non è solo grazie al suo successo economico, al suo impegno a favore dei diritti umani e all’offerta di buoni uffici nelle crisi internazionali. È anche grazie alla sua affidabilità, perché mantiene la parola data e si attende che gli altri facciano altrettanto. È la nostra stessa Costituzione a volerlo: l’art. 5 cpv. 4 impone a Confederazione e Cantoni di rispettare il diritto internazionale e l’art. 190 prescrive al Tribunale federale (TF) e alle altre autorità giudicanti di applicare le leggi federali e il diritto internazionale. È il cosiddetto primato del diritto internazionale: un primato che tuttavia non è assoluto. In casi eccezionali il conflitto tra una norma internazionale e una nazionale può essere risolto a favore di quest’ultima, quando è assodato che l’Assemblea federale abbia deliberatamente preso in considerazione l’incompatibilità della norma interna in questione con una precedente norma del diritto internazionale. Questa modalità flessibile di risolvere eventuali conflitti di norme ha dato buona prova di sé, nei pochi casi in cui il problema si è posto. Negli ultimi anni si sono però fatte più frequenti le iniziative popolari miranti a modificare la Costituzione federale con disposizioni problematiche alla luce degli impegni internazionali della Svizzera, se non addirittura inconciliabili: per esempio le iniziative per l’internamento a vita, per il divieto dei minareti, per l’espulsione di stranieri condannati, per il rinvio effettivo di stranieri delinquenti, per uno stop all’immigrazione incontrollata e, ultima arrivata, per la disdetta della libera circolazione delle persone. Finora il Parlamento è sempre riuscito ad attuare in forma di legge queste controverse modifiche costituzionali, mediando tra volontà popolare e rispetto del principio «pacta sunt servanda», che regge il diritto internazionale. Ma ai fautori del sovranismo questo saggio pragmatismo, tipicamente elvetico, non sta bene. Essi vorrebbero capovolgere la gerarchia normativa con uno schema rigido che non ammette eccezioni: la Costituzione federale assurgerebbe a «fonte suprema del diritto della Confederazione» (nuovo art. 5 cpv. 1 CF) e prevarrebbe sul diritto internazionale, fatte salve le regole imperative come il divieto della tortura e della schiavitù. In caso di contraddizione di una norma della Costituzione con gli obblighi internazionali, questi andrebbero adeguati e, se necessario, disdetti. Chi, come e quando li debba disdire non è dato sapere. Inoltre, dal testo non risulta che il popolo possa dire la sua, neppure se a suo tempo aveva approvato il trattato in questione. Quale sia il vero bersaglio dell’iniziativa non è un arcano: è la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), un «insopportabile» ostacolo all’attuazione delle recenti iniziative lanciate dall’UDC. Infatti, secondo il nuovo art. 190 CF proposto dai promotori, le leggi federali e soltanto i trattati internazionali assoggettati al referendum sarebbero vincolanti per il TF e le altre autorità chiamate ad applicare il diritto. Quando il nostro Parlamento ratificò la CEDU nel 1974 non sottopose il decreto di approvazione al referendum facoltativo, poiché le disposizioni di allora non lo prevedevano. Per contro ogni protocollo aggiuntivo alla CEDU, adottato dalle Camere federali a partire dagli anni ’80, fu munito della clausola referendaria, ma nessun referendum fu mai lanciato. La denuncia della CEDU avverrebbe quindi a dispetto della sua legittimazione democratica, risultante dall’accettazione tacita da parte del popolo di tutti gli accordi successivi che ne hanno esteso la portata e che hanno regolato gli aspetti procedurali relativi alla Corte di Strasburgo chiamata ad applicarla. La disdetta della CEDU non solo nuocerebbe alla nostra reputazione, sconfessando clamorosamente la tradizione umanitaria svizzera. Ma incoraggerebbe anche alcuni Stati con regimi sempre più autoritari a fare altrettanto (Russia, Turchia, ecc.). Poter beneficiare della CEDU anche in futuro è importante proprio perché la nostra Costituzione non è statica e può sempre essere oggetto di modifiche, comprese quelle incompatibili con le libertà individuali garantite dalla Costituzione stessa e dai trattati internazionali. La possibilità di rivolgersi a Strasburgo in questi casi è quindi una garanzia supplementare di salvaguardia dei diritti fondamentali, soprattutto per le minoranze. Gli attuali meccanismi della nostra democrazia liberale fondata sullo Stato di diritto neutralizzano il rischio di una tirannia della maggioranza, già temuta da Tocqueville. Ed è giusto così, perché nessuna maggioranza, sia essa popolare, parlamentare o governativa, è autorizzata a calpestare i diritti fondamentali, le libertà individuali e delle minoranze e la separazione dei poteri.

Consigliere nazionale PLR, Corriere del Ticino, 11 ottobre 2018